sabato 25 gennaio 2014

Il tumore: una malattia familiare

 
Una diagnosi di tumore, le terapie, gli effetti collaterali di queste ultime non incidono solo sull'equilibrio del malato ma su quello di tutta la famiglia di cui esso fa parte. Questo perché la famiglia è un insieme unitario, in cui il comportamento di un individuo è in rapporto con quello degli altri, lo influenza e ne è influenzato. In quest'ottica, il tumore rappresenta una malattia familiare
 
Molti sono i possibili percorsi familiari nel processo di adattamento alla malattia di un proprio caro: vi sono, ad esempio, famiglie che inizialmente cercano di ristabilire l'equilibrio precedente alla diagnosi, negando i cambiamenti che sarebbero necessari nella sua organizzazione, per poi con il tempo stabilire un equilibrio nuovo; altre, che a dispetto della situazione, continuano come se nulla fosse accaduto e altre ancora che si attivano molto presto nel ridefinire una nuova organizzazione.
Certamente sono processi difficili, dolorosi ma anche unici, specifici per ogni famiglia e ogni componente, processi in cui molti fattori si influenzano reciprocamente. 
 
I CAMBIAMENTI NELLA FAMIGLIA DOPO LA DIAGNOSI
Tra i cambiamenti richiesti ai membri della famiglia e al malato, uno è relativo ai ruoli all'interno della famiglia: infatti la persona malata può ricoprire nella famiglia un ruolo centrale e la malattia cambia la sua posizione richiedendo agli altri membri di trovare un altro riferimento. Così possono emergere nei familiari domande del tipo: Chi prenderà questo ruolo? Sarà in grado? Come lo vivrà? E la persona malata? I figli? e per quanto tempo la nostra famiglia riuscirà a tollerare questi cambiamenti? 
 
Ad esser sconvolte saranno anche le regole, i ritmi della vita quotidiana, portando a vissuti di perdita per quanto non si può più fare od essere: ad esempio un figlio che non può più essere accompagnato dalla mamma a scuola, dovendo andare in ospedale per le terapie, e subentrerà la nonna al suo posto. E ancora potranno emergere possibili difficoltà economiche indotte dalla malattia per i costi di eventuali ricoveri, esami, cure. Infine, nel caso in cui ad esser malato è il capofamiglia, la famiglia può perdere i privilegi legati al ruolo sociale o professionale del congiunto malato. Un cambiamento vissuto spesso con notevole e comprensibile disagio dalla persona malata è la perdita dell'autonomia, diventando dipendente dalle cure e dagli interventi dei familiari.
Si è detto che ogni famiglia e ogni suo componente reagirà alla malattia del proprio congiunto in modo unico, in relazione a molteplici fattori, sia legati alla malattia che alla storia della famiglia e dei suoi singoli membri.

LE FASI DI REAZIONE DEI FAMILIARI ALLA MALATTIA DEL CONGIUNTO
Comunque, in una visione generale, anche la famiglia, come il congiunto malato, attraversa una serie di fasi rispetto alle modalità di reazione alla malattia del proprio caro. Queste fasi si possono presentare in modo complementare a quelle del malato o in maniera sfasata (ad esempio rabbia e impotenza, mentre il malato sta accettando quanto accade). Nel momento in cui la famiglia riceve la notizia della diagnosi, nei suoi componenti possono emergere reazioni fisiologiche di shock, quali sentimenti di rabbia, incredulità, angoscia paralizzante. 
 
Superato tale difficile momento, segue una fase di transizione, una fase dominata da un lato dalla negazione, dal rifiuto di quanto sta accadendo e dall'altro da sentimenti di disperazione, di perdita del proprio congiunto, vissuto come 'destinato a morire'. Così i familiari possono dire e dirsi: “No, non è possibile, non è vero! Si sono sbagliati! Non può succedere a lui!”. 
 
Inoltre, in tale fase acuta la famiglia può caratterizzarsi per altri due aspetti: per l’affannosa ricerca di terapie, a volte miracolose, per le richieste di ulteriori indagini cliniche che possano eventualmente ridurre il pessimismo diagnostico; e per una cospirazione del silenzio rispetto alla diagnosi, ai risultati delle terapie ma anche un silenzio rispetto alle proprie emozioni e pensieri, un silenzio che frequentemente incrementa le angosce del malato il quale nota che c'è qualcosa di diverso, qualcosa che non gli viene detto ma non capisce di cosa si tratti. Così si chiede: “Perchè mi guardano in modo diverso? Perchè cambiano argomento quando entro nella stanza?”. Allo stesso tempo, si affacciano in lui pensieri ed emozioni e prefigura diversi scenari relativi alla propria situazione. Può arrivare a pensare che sia meglio non chiedersi e non chiedere, sia meglio non sapere ciò che tutti sanno ma che nessuno riesce a dirgli e così cerca di reprimere i propri pensieri, le domande, le emozioni. I familiari stessi tra loro possono non condividere quanto accade per il timore di incrementare le paure, le angosce dell'altro, di far soffrire ancora di più. 
 
In tale silenzio ci può essere un voler negare a se stessi e al proprio congiunto il confrontarsi con l'idea della morte, argomento spesso indicibile, se non impensabile. Così ognuno è solo con le proprie emozioni e pensieri. Il tentativo di evitare il confronto con la paura connessa alla morte e alla sofferenza genera una lotta contro una parte di sé, una lotta che lascia spossati, concentrando le proprie energie contro il 'nemico'. In tal modo però si diviene una vittima inerme della malattia e della paura. 
 
Certo con questo non si vuol dire che bisogna comunicare tutto, subito e sempre ma piuttosto che, tenendo conto del singolo caso, dei tempi e delle caratteristiche individuali e familiari, avviare un percorso di riconoscimento ed espressione graduale di emozioni e pensieri, affinchè i tentativi di protezione personale e familiare non rischino di porre tutti in isolamento, impedendo di beneficiare della condivisione e consolazione reciproca.
Alle reazioni acute fino ad ora descritte segue una fase di elaborazione, di ricerca del significato di quanto accaduto, per cui i familiari, come il malato, si chiedono: perchè a noi? Che senso ha questa malattia? Quale è il senso della vita? E della morte? e così via. In tali casi la malattia diviene un evento trasformativo di enorme significato, aprendo la strada ad un nuovo modo di conoscere e di conoscersi, ad un nuovo equilibrio personale e familiare. Così i familiari imparano a confrontarsi con la paura, invece che ad evitarla o combatterla, a riconoscerla, ad abbandonarsi alle emozioni più temute. Intrapreso questo percorso, i malati e i loro familiari possono testimoniare come il difficile percorso vissuto li abbia portati a guardare la vita, il lavoro, le relazioni secondo una nuova prospettiva, con nuove priorità.
Questi processi si rendono evidenti soprattutto nei casi in cui il tumore consenta delle lunghe sopravvivenze o la guarigione clinica del congiunto malato.
Nel caso in cui questo non si verifichi e le condizioni del malato si aggravino fino ad una fase terminale, subentrerà la fase del lutto, dapprima anticipatorio dell’evento mortale (che può portare a vissuti ambivalenti nei familiari), cui seguirà la fase del lutto propriamente detto, reale, il quale può concludersi con l'accettazione o degenerare in un lutto patologico.
COSA DIRE AL CONGIUNTO MALATO? COME? QUANDO?
Quando ad un proprio caro viene diagnosticato il tumore e nei mesi seguenti, i loro familiari possono trovarsi nella situazione di non saper che cosa fare o dire. Non esiste una 'ricetta' che vada bene per tutti, in qualunque situazione. 
Si può però partire dal fatto che il malato ha bisogno di espressioni di affetto e attenzione. Inoltre, altro punto fondamentale per aiutare il proprio caro sta nell'ascoltarlo, fornendo così il sollievo dalla tensione accumulatasi per le molteplici preoccupazioni ed emozioni. Infatti, contrariamente a quanto spesso si pensa, il parlare di paure, rabbia, incertezza per il futuro, non le aumenta o non ne fa sorgere di nuove. Piuttosto, il non aprirsi, il non parlare delle proprie emozioni può farle crescere e aumentare la pressione dentro di sé. Parlare e ascoltare contribuisce a ridurre quell'isolamento in cui, come abbiamo visto, spesso si trova il malato e gli rimanda che si accettano e comprendono quelle emozioni e si riduce così nel proprio caro la vergogna che a volte può provare per il fatto di avere tali emozioni. Si comunica alla persona “Sei importante per me” e si crea una relazione reciprocamente gratificante.
Per esser un 'buon ascoltatore' è importante prima di tutto mandare dei segnali che facciano capire alla persona che si è lì per lui, che gli si dedicherà del tempo, senza fretta. Così ad esempio togliersi il cappotto, sedersi accanto a lui, guardarlo negli occhi. A questo punto, osservare o domandare se la persona ha voglia di parlare. Infatti, prima di intraprendere una conversazione profonda non voluta, è meglio chiedere “Ti va di parlare un po'?”, oppure “Parlami solo te la senti”. Se non ne se la sente, si può essere di aiuto anche ascoltando il suo silenzio. Se invece mostra di voler aprirsi, evitare di anticipare, interrompere, interpretare le sue parole o di pensare a quello che si dovrebbe dire, perdendo quello che il proprio caro sta dicendo. E ancora incoraggiarlo ad aprirsi, annuendo o dicendo “vai avanti”. Se poi la persona resta in silenzio, non aver fretta di colmarlo con le parole ma rispettarlo e dopo un po' chiedere con dolcezza a cosa sta pensando. Altro aspetto importante per essere un buon ascoltatore è riconoscere i propri sentimenti ed esprimerli, essere autentici, dicendo ad esempio “Non sono molto bravo a parlare di questo argomento” o “Sono triste anch'io”. E ancora, non lasciar cadere un argomento senza rimandare il motivo; accertarsi di aver capito quanto l'altro sta dicendo, così da non far nascere malintesi, con frasi del tipo “Fammi capire meglio cosa intendi dire”. Non iniziare la conversazione con consigli, dato che potrebbe essere ciò di cui l'altro non ha bisogno in quel momento e inibirebbe la comunicazione. L'altro infatti a frasi del tipo “Se fossi in te, mi comporterei così..”, potrebbe rispondere o pensare “Ma tu non sei me!”



Nessun commento:

Posta un commento